domenica 10 gennaio 2016

Per il ciclo recensioni librose: "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza" di Luis Sepùlveda

Quest'oggi vi parlo di "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza", ennesimo libro di Sepùlveda in cui i protagonisti sono gli animali, antropomorfizzati e/o portatori di qualità particolari che altri animali (compresi noi Homines Sapiens Sapiens) possono apprendere.

Parto col dire che condivido in pieno il pensiero dell'autore: gli animali hanno davvero molto da insegnare agli esseri umani, non solo la fedeltà dal cane o il sapersi godere la vita da un gatto, bensì tutta una serie di valori e prospettive mentali che aiuterebbero il genere umano ad affrontare molto meglio la vita di tutti i giorni, con le sue difficoltà e i suoi momenti di sconforto, ma anche con i momenti allegri, da condividere con i nostri simili.
Il genere è quello della fiaba, o favola, da sempre una delle mie forme letterarie preferite. Per di più, si tratta di fiabe non solo per ragazzi e bambini, ma anche per adulti, con più livelli di lettura a seconda del grado di conoscenza di se stessi. Però...

Vi avviso: sto per diventare odiosa. Sapevatelo.
E' che, come chiacchieravamo ieri io e il mio fan Alessandro, questi libricini di Sepùlveda mi hanno iniziata a stancare. Cioè, prima la gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, e fin qui ok, storia bellissima, un classico senza tempo seguito da una postfazione a dir poco struggente, e va bene.
Poi, una fan mi ha segnalato la presenza della storia su un gatto e un topo che diventa suo amico; e fin qui, ok, ci sto ancora.
Poi c'è questo, con una lumaca che vuole sapere perché le lumache sono lente. Vaaaa bene.
Ma da poco è uscita anche la storia di un cane che insegna a un bambino la fedeltà e, come vi dissi ieri, giuro che se qualcuno osa regalarmelo per il mio imminente compleanno (yeeeh! 31 gennaio! Viva me!), do di matto. So di esprimere un'opinione forte che in molti non condivideranno, ma, come si suol dire, me ne farò una ragione e supererò il trauma. Perché a me, pur con tutti i miei limiti, sembra che Sepùlveda, autore di alcuni fra i più notevoli romanzi della nostra epoca, si sia perso in uno zoo e non riesca più a trovare la chiave per uscirne. Mi sbaglierò, ma si ha l'idea di un autore che, dopo aver scritto tanto ed essere rimasto a corto di idee, abbia individuato un filone ricco e di facile estrazione, che non fa che richiamare alla mente il suo storico successo con la gabbianella e il gatto, e si sia adagiato su quello.

Vi spiego un po' la trama: c'è una lumaca che vive con altre lumache in un prato, quello che loro chiamano Paese dei Denti di Leone. Tutte le altre amano la loro vita semplice, fatta di ritmi tranquilli, lenti e piccole abitudini quotidiane, come quella di mangiare tutte insieme quando cala la sera, ma la protagonista no. Lei vuole sapere perché le lumache sono lente e perché non si danno nomi fra di loro. Inutile dire che viene vista come una stramboide (ma va?), perciò si mette in viaggio per dimostrare che non necessita di stabilizzatori dell'umore.

Incontra una tartaruga, parlano un po', poi vede che gli esseri umani stanno asfaltando il prato e vuole avvisare le altre lumache, perciò torna indietro e nel frattempo avvisa le altre creature del prato, complice la sua lentezza, che le permette (eh! Avete capito quanto è importante essere lenti, adesso?) di non superarle senza neanche vederle. Le lumache non le credono fino a quando, salendo su una pianta (perdendo così 8934897651 minuti preziosi del loro e del mio tempo, in cui si muovono "molto, molto lentamente", una frase usata una ventina di volte per tutto il libro), non si convincono e quindi inizia l'esodo verso un nuovo Paese dei Denti di Leone. Succedono cose, muoiono valanghe di lumache, 'na tragedia, poi arrivano in un certo posto, si addormentano, poi si risvegliano in primavera e... fine.

Finisce così, davvero. Non vi svelo proprio tutto, vi ho tenuti nascosti alcuni "colpi di scena", se così vogliamo chiamarli, ma è tutto qui.

Lo stile è davvero molto lineare, senza nessun tipo di virtuosismo letterario. Non viene fatto uso di una particolare capacità descrittiva e i dialoghi sono tipici delle fiabe per bambini, con pensieri semplici e molto spogli.
Il libricino in sé è anche carino, ha un suo perché, le pagine scorrono molto velocemente e si legge in un paio d'ore senza problemi. Lo consiglio spassionatamente ai bambini, ma è adatto anche a un tipo di persone che non ha mai sondato più di tanto la propria interiorità e che, quindi, è più facilmente permeabile di fronte a storie semplici come questa, con una morale chiara e precisa.
Personalmente, avrei sperato di trovare degli insegnamenti non così evidenti ed espliciti; non amo che mi si imbocchi. In più, la morale del libro l'ho trovata un po' scontata. Nulla che non legga ogni mese su Riza, insomma.

Piccola premessa: da qui in avanti potrebbe esserci qualche spoiler. Dicevo: non sono riuscita a individuare in Ribelle - così si farà chiamare la nostra prode lumachina - né nella storia in generale un buon veicolo per il messaggio finale: ossia, che la capacità di far fiorire il nuovo Paese del Dente di Leone lo avevano sempre avuto le lumache dentro di loro. Ho capito cosa voleva dire Sepùlveda (il concetto che siamo noi i portatori del germe del nostro futuro, del nostro destino, siamo noi a decidere quando farlo germogliare eccetera), ma non ho trovato che questo fosse il modo più adatto per dirlo. Un conto sarebbe stato cercare di convincermi che noi tutti cerchiamo la felicità quando essa è già dentro di noi; un conto è dire che queste povere lumache, che avevano obiettivamente necessità di cibo per sopravvivere, in realtà avevano sempre avuto dentro di loro il Paese del Dente di Leone. Queste stavano a morì de fame prima sull'asfalto, poi nel tubo per l'acqua, poi nel bosco, poi spiaccicate in varie posizioni acrobatiche... insomma, il Paese che tanto cercavano non era dentro di loro, hanno dovuto aspettare un'intera stagione in letargo affinché la natura lo facesse germogliare, queste avevano davvero fame e freddo! Se poi anche il letargo vuole essere una sorta di metafora dei momenti bui della vita che in realtà alla fine ci portano a cogliere i frutti più succosi, allora è un altro conto... probabilmente quello è un livello di lettura che io non sono riuscita a cogliere troppo bene.

Ma no, non lo rileggerò per coglierlo. Mi spiace.


In definitiva, il libro è come un'architettura su strati dove vari livelli di lettura si sedimentano uno sull'altro: sta a noi decidere quale affrontare per primo, oppure se cercare d'individuarli tutti insieme. Quanto a me, nessuno di questi strati mi ha entusiasmata; forse rimarrei più soddisfatta dalla lettura di "Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico" oppure da "Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà", ma non so se deciderò di leggerli.
Voi, tanto per non sbagliare, non regalatemeli.
Mi senti, mamma? Papà? Se state leggendo il mio blog, non vi azzardate. Grazie.

Bene, ora partite pure con gli insulti, me li aspetto :3

2 commenti:

  1. Dopo una recensione così non credo che qualcuno, tantomeno i tuoi genitori,si azzarderanno a regalarti uno dei libri che hai citato...
    Decisamente mi sembra una lettura più adatta ai bimbi o ragazzi, ma comunque ritengo che leggere un libro sia sempre un'esperienza che ti dà l'opportunità di discutere sull'argomento trattato.
    Sinceramente non credo che leggerò questo libro, ma è stato illuminante leggerne la recensione. :)

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    1. Io amo leggere fiabe per adulti e bambini, come sai: dal semplice Topolino a libri come "Winnie Puh", per non parlare di tutta la collana degli Istrici e molte altre: autori come Roald Dahl, Susanna Tamaro e Bianca Pitzorno, per non parlare della Solinas Donghi, sono e sono state il mio pane quotidiano. Ma questa fiaba di Sepúlveda proprio non l'ho digerita. Mi sembra davvero che lui abbia scoperto che questo filone gli porta lettori facili con poco sforzo e si sia adagiato. Mah.

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Tu.
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