giovedì 3 maggio 2018

Letteratura, arte e malattia mentale


Follia. Bipolarismo. Depressione. Schizofrenia. Suicidio.
Solo leggere queste parole provoca qualcosa dentro di noi, una sorta di brivido. Come se il cuore perdesse un battito e, per un istante, come l'occhio fisso del protagonista de Il cuore rivelatore di E. A. Poe, fossimo stati agganciati da qualcosa di troppo magnetico per riuscire a distogliere lo sguardo. Continuiamo a fissare il baratro, sul fondo del quale ululano e ringhiano creature immerse nell'oscurità. Ma dobbiamo fare attenzione, perché non solo quei versi sono molto più umani di quanto ci piacerebbe ammettere; guardare nell'abisso è pericoloso perché, come diceva F. Nietzsche, "se tu scruterai a lungo nell'abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te".


Eppure c'è chi, in quell'abisso, ci è addirittura sceso, gradino dopo gradino. Scrittori, poeti, pittori, scultori; artisti di ogni età, sesso e secolo hanno dovuto fare i conti con disturbi psichici di varia natura. Ma si sono ammalati a causa della loro professione, oppure è stato il loro disturbo a spingerli a creare? La malattia mentale è una spinta propulsiva verso il genio letterario (e non solo), oppure ne è la conseguenza? In fondo, non era Platone che scriveva: «Chi è padrone di sé bussa invano alla porta della poesia»?

Beh, proviamo a rispondere insieme a questa domanda. Di sicuro, tra fragilità psichica e arte vi è una stretta correlazione. Nel 2011 il British Journal of Psychiatry ha dimostrato in una ricerca la correlazione fra la creatività e la sindrome bipolare. Cito da La Repubblica: "Un altro studio del Karolinska Institutet dichiara che gli scrittori hanno probabilità superiori alla media di essere ansiosi, bipolari, depressivi unipolari, schizofrenici, anoressici, vittime di droghe e alcol. Il tasso di suicidi sarebbe doppio del normale. Avventurarsi ai limiti dell’animo umano si paga caro e, in effetti, il Parnaso del disagio psichico è sterminato."

Ma perché?
A quanto pare, l'idea è che il cervello di artisti e scienziati non abbia un filtro efficiente che gli permetta di proteggersi da emozioni e stimoli del mondo esterno, che vengono tutti vissuti con uguale importanza: è questo li porta a generare connessioni sorprendenti e originali.

Vi faccio un esempio. Io sono una signora Nessuno, un'aspirante scrittrice con le pezze ai pantaloni e un frullo di sogno nel cuore, eppure anche a me capita qualcosa di simile con gli oggetti più comuni. So che mi prenderete per pazza, ma se io vedessi una borsetta di plastica appesa a un ramo, sbatacchiata dal vento, di sicuro non farei finta di niente. Penserei a come mi sento io quotidianamente, appesa al mio ramo mentre il vento della vita mi schiaffeggia, zavorrata in un luogo che non sento casa mia, impossibilitata a liberarmi e viaggiare; e, pertanto, aiuterei la borsa, liberandola dai rovi per permetterle di volare via, lontano, dove forse sogna da una vita di andare. E' così che io vedo il mondo, che l'ho sempre visto, fin da bambina. Fin da quando scrivo.


Sarebbe quasi da scriverlo, sopra i libri. Attenzione, aspiranti artisti: l'arte nuoce gravemente alla vostra salute mentale. Accendete la tele e sintonizzatevi su "La pupa e il secchione" finché siete in tempo. Ma non sarebbe giusto, perché, prendendo ad esempio il mondo della scienza e citando uno sketch di "The big bang theory", per un Tesla che asseriva di amare un piccione come un uomo ama una donna e che il piccione lo ricambiasse, c'era pur sempre un Edison che era solo un pallone gonfiato. Anche nel mondo della letteratura ci sono persone che non hanno avuto problemi, o che dai disagi psichici e dal loro passato traumatico hanno tratto la linfa vitale per produrre grandi opere e guarire. In fondo, non è un caso se l'arte, e la scrittura in particolare, viene proposta come terapia: tenere un diario, mettere per iscritto le proprie emozioni, può diventare uno strumento di cura straordinario alla portata di tutti. Bastano una penna, un foglio e il coraggio di lasciarsi andare.

Ma è davvero solo un fatto di coraggio riuscire ad accettare l'arte come terapia, o la terapia in generale, sia essa di tipo farmacologico o psicoterapeutico?
Io dico di no. Non basta il coraggio, né sapere che quella pastiglia o quella seduta ci faranno sentire meglio. Questo a causa del senso di colpa che la società pone sulla schiena di chi soffre dal punto di vista psichico. Vi faccio un paio di esempi. Fingiamo che voi siate piccoli scrittori che non possono campare con le poche decine di copie che riescono a vendere. F-f-fatto, alla Muciaccia? Benissimo. Ora immaginate di star partecipando a una cena di rimpatrio dei vostri compagni di scuola. Tutti vi ripresentate e dite che lavoro fate oggi. Qualcuno dice medico. Qualcun altro, cuoco, o commessa, o operatore ecologico, quello che vi pare. Quando arriva il vostro turno, nonostante un paio di vecchi compagni abbiano detto che sono, ahimè, disoccupati, non vi sentite in colpa a mormorare "scrittore"? Dai, un pochino sì. Immaginatevi il dialogo:

"Io, ehm, scrivo."
"Oh, davvero? Dai, cos'hai scritto, ché domani vado in libreria e lo compro?"
"Eeeh... no, ecco. In libreria non ci sono. Cioè, non ho venduto molto. Per ora. Puoi ordinare uno dei miei libri sul sito xxx, però."
"Ah."
"C-Cioè... non è proprio il libro vero. E' più un ebook. Sai, il mercato è in crisi. E poi, è un lavoro talmente duro. Mi spezzo la schiena e mi scervello tutto il giorno alla scrivania, ma..."

Sguardi d'intesa fra gli altri. Risatine di scherno, dopodiché vi lasciano lì, a farfugliare qualche alibi mentre loro si mettono a parlare delle loro professioni, che sono vere e retribuite. Voi passate il resto della serata mescendo debolmente il vostro bicchiere di vino, sospirando in un angolo, sentendovi in colpa per non essere un adulto funzionale e produttivo.
Ma non è finita qui. Pensate ora che voi, scrittore in erba, cominciate a sentirvi strani. Evanescenti. Non riuscite a scrivere perché vi sentite in colpa, perciò cominciate a non uscire più, perché, sperando di ritrovare la Musa, voi continuate a restare in casa ogni fine settimana. I giorni vi sembrano grigi e duri come roccia. Poi iniziano a sgretolarsi, come sabbia. E anche quella è grigia, fredda, e morta. Ne sentite il sapore in bocca, un misto di cenere e sogni infranti che vi fa prosciugare l'anima. Alla fine, non vedete più niente. Incolori voi, incolore l'esterno. Tutto è grigio, i fogli restano vuoti e così vi sentite anche voi: vuoti. Involucri con un buco al posto del cuore, e niente con cui riempirlo.

Bene, ora che siete depressi, immaginate di andare da uno psicologo, che vi consiglia di farvi prescrivere dei farmaci da uno psichiatra. E così fate, perché non avete scelta. In farmacia vi danno una scatolina: Prozac, c'è scritto. Dio santo, quanto avete preso per il culo il vostro professore di filosofia del liceo, quando tirava fuori la sua scatoletta di pasticche dalla borsa di cuoio e ne buttava giù una con l'espressione colpevole di un cane sorpreso a fare la cacca in salotto.
Ma vi fate forza, e salite sul bus per tornare a casa. Appena seduti, tirate fuori la medicina, e...
Ferma tutto. Fermatevi un momento e riflettete. Siete lì, sul bus, di fronte a un sacco di persone che vi fissano. La vostra reputazione è già ai minimi storici. Rischiereste davvero di rivelare a tutti il vostro orribile segreto? Che non siete giù di morale per qualche disgrazia ma "solo" perché siete depressi? Che siete un debole, un codardo che non ce la fa da solo a risolvere i suoi problemi? Io penso proprio di no. Perché voi non volete che gli altri pensino che siate pazzi. Non volete che ridano di voi come voi ridevate del professore. Però, se il motivo del vostro malessere non fosse un disagio psichico, bensì una banale gastrite (che è vera e reale), non avreste problemi a tirare fuori un Buscopan dalla borsa e a inghiottire quello. Dico bene?

Ed è qui che vi volevo. Al senso di colpa, alla vergogna. Al dolore che la società aggiunge ad altro dolore nel demonizzare chi soffre di un disturbo mentale. Pensateci: voi parlereste così volentieri di malattie mentali? O vi sentireste a disagio e preferireste cambiare argomento? Se ci ragionate su, è assurdo: pensate che, per fare un esempio, ci sono paesi in cui, al mondo, non esiste una parola per definire la depressione e, di conseguenza, il tasso di suicidio è altissimo.
Questo significa che basterebbe parlarne per aiutare le persone. Non farle sentire in colpa. Ascoltare. Dare loro la libertà di curarsi senza pregiudizi e il terrore di perdere il posto di lavoro, o essere marchiati come la "Mia Martini" o il "Marco Masini" di turno. Basterebbe questo, talvolta, per salvare una vita.

Bene. Detto questo, che è il mio personale parere, vorrei lasciarvi un elenco degli artisti e scrittori più celebri che hanno dovuto affrontare, alcuni vincendo, altri soccombendo, i loro demoni interiori. Virginia, mi dispiace tanto. Vincent. Dio mio, nemmeno ti immagini quanto mi manchi. 

Charles Baudelaire: poeta maledetto, consumava alcool, assenzio, droghe. Visse in alloggi precari, pieno di debiti, con instabilità mentale e tentativi di suicidio. Morì a 46 anni.

Dino Campana: autore de I canti orfici. Venne spesso internato in manicomio. Da ragazzo fuggì più volte di casa per andare in paesi stranieri, ma a ogni viaggio poi corrispondeva un ricovero in manicomio. La madre era certa fosse l'anticristo.

Alda Merini: poetessa milanese, combatte con la depressione e viene internata in manicomio. Vive la disperazione dei ricoveri fra Villa Turro e il Paolo Pini e la violenza di quarantasei elettrochoc.

Edgar Allan Poe: debiti di gioco, alcool, diceva di se stesso che era un folle. Divenne davvero folle dopo la morte della moglie e varie delusioni amorose. Pochi giorni prima di morire venne raccolto in stato delirante dalle strade di Baltimora. I giornali riportarono come causa della morte CONGESTIONE DEL CERVELLO.

Francis Bacon: nel 1971 il suo compagno, George Dyer, si suicidò in un hotel di Parigi; avvenne il giorno stesso in cui si aprì un'importante esposizione pittorica di Bacon al Grand Palais. Questo gli generò senso di colpa, anche perché la sua relazione con Dyer era caratterizzata da masochismo e crudeltà. Anche la sua arte cambia e Dyer diventa il suo soggetto preferito.

John Nash: matematico vincitore del Nobel, spesso ricoverato e internato. Schizofrenico. E' stato convinto di essere l'imperatore di Antartide e il piede sinistro di Dio. Sottoposto frequentemente a elettroshock e legato con camicie di forza.

Chaim Soutine: pittore russo spesso insoddisfatto e depresso. Distrusse molte delle sue opere. Dipinse soggetti come carcasse di animali squartati.

Virginia Woolf: forse affetta da disturbo bipolare, fu vittima di crisi depressive e profondi esaurimenti nervosi. Tentò molte volte il suicidio e ci riuscì il 28 marzo 1941, annegandosi nel fiume Ouse. Sentiva gli uccelli cantare in greco.

Camille Claudel: scultrice con burrascoso rapporto amoroso che instaurò col suo maestro, il grande scultore Auguste Rodin. Nelle sue opere si nota il disagio che lei provava nel dover condividere il suo amore con la moglie di lui. Aveva anche un brutto rapporto con la famiglia. Dopo che Rodin si rifiuta di sposarla si ritrova sola, non capita né apprezzata. Poverissima, si chiuse nel suo atelier dove visse tra gatti, ragnatele e marmi. Completò le sue opere e le distrusse a colpi di martello, le definì vere e proprie esecuzioni. Esaurimento nervoso. Venne internata per 30 anni fino al giorno della sua morte. Qualcuno però dice che in realtà lei non stava così male e che fu la sua famiglia a volerla tenere in manicomio. Nessuno partecipò al suo funerale.

Francisco Goya: encefalopatia dovuta a intossicazione da piombo allora presente nei pigmenti. Ne conseguirono sordità e alterazione della personalità, depressione, mostri nei suoi quadri.

Michelangelo: depresso e vittima di complessi nei confronti di Raffaello, non voleva essere superato.

Richard Dadd: pittore inglese dell'Ottocento, trascorse molti anni in manicomio per aver ucciso il padre con un coltello a serramanico durante una normale passeggiata in campagna, perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre nemico della sua divinità, il grande Osiris, alla quale aveva eretto come santuario la sua camera d'affitto a Londra. Pensava che il compito di difendere Osiris gli fosse stato assegnato dalla Sfinge. Disegnava fatine, folletti, gnomi, piccole creature. In Egitto, durante un viaggio, diede i primi segni di malattia mentale. Prima di uccidere il padre assaltò varie persone, con intenti omicidi, che secondo lui complottavano contro Osiris. Passò in manicomio 42 anni e dipinse sempre.

Edvard Munch: si ritiene fosse affetto da sindrome schizoide. Pittore norvegese. Scrisse, per descrivere Il grido:

"Una sera passeggiavo per un sentiero,
da una parte stava la città e sotto di me il fiordo.
Ero stanco e malato.
Mi fermai e guardai al di là del fiordo
- il sole stava tramontando -
le nuvole erano tinte di un rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura:
mi sembrò quasi di udirlo.
Dipinsi questo quadro.
dipinsi le nuvole come sangue vero.
I colori stavano urlando."

Vincent Van Gogh: malattia mentale manifestata prima dei 30 anni. Allucinazioni, attacchi di tipo epilettico. Cadeva in depressione, ansia, confusione mentale. Come molti altri artisti faceva uso di una bevanda alcolica molto tossica, l'assenzio. Un anno prima della morte, dopo una violenta discussione con il pittore amico Gauguin, si recise l'orecchio sinistro per poi regalarlo a una prostituta. Le condizioni di salute del pittore peggiorarono. A proposito di "Campo di grano con volo di corvi" scrisse: "Ho dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l´estrema solitudine ". In uno di questi campi, di lì a pochi giorni, si sparerà, e morirà due giorni dopo.
Era anche disperato per amore, rifiutato dalla cugina Kate rimasta vedova si brucia una mano con la fiamma di una lampada. Viene ricoverato varie volte nel suo ultimo anno di vita con allucinazioni schizoidi.

Ligabue: pittore con disturbo dissociativo dell'identità, di frequente si abbandonava a danze, mimando gli animali ed emettendo versi e urla, imbrattandosi dei colori con i quali lavorava.

Jackson Pollock: autodistruzione per tutta la vita, una parabola di eccessi, alcool e psicofarmaci, un terribile incidente d'auto a 44 anni l'11 agosto 1956. Internamento in un ospedale psichiatrico dopo che per una notte intera non aveva fatto altro che colpire ripetutamente il tavolo con un coltello.

Louis Wain: pittore. A 57 anni, nel 1917, convinto che la luce tremolante dello schermo del cinematografo rubasse energia al suo cervello, si isola e si chiude nella sua stanza. Aggressivo e violento. Nel 1924 venne ricoverato in un ospedale per indigenti.

Jean Michel Basquiat: tossicodipendenza, morto a 28 anni, autodistruttivo, disturbi psichici. Problemi d'identità di un ragazzo alle prese con i fantasmi della sua origine afroamericana e con l'ombra della sua amicizia con Andy Warhol.

Mark Rothko: fortemente depresso.

Sergej Esenin: depresso, si suicida per impiccagione nel 1925 in un albergo di Leningrado: «Arrivederci, amico mio, arrivederci, tu mi sei nel cuore», scrive con il sangue nei suoi versi di commiato. Il suo gesto otterrà la riprovazione pubblica dell’amico e collega Vladimir Majakovskij, che cinque anni dopo si ucciderà a sua volta, sconvolto dalla deriva stalinista dei Soviet.

Theodore Roethke: poeta statunitense, viene ricoverato in ospedale per esaurimento nervoso.

Jack Kerouac: padre della beat generation, viene riformato dalla Us Navy durante la seconda guerra mondiale per schizofrenia e morirà giovane a causa dell'alcolismo.

Ernest Hemingway: depresso e alcolista, violento, si tira una fucilata nel 1961, morendo suicida.

Hunter J. Thompson: inventore del “gonzo journalism” impersonato al cinema da Johnny Depp (Paura e delirio a Las Vegas, 1998), si suicida nel 2005.

David Foster Wallace: suicida nel 2008.

Emily Dickinson: isolata, depressa, malinconica («mi parve che la mente mi si dividesse/che il cervello in due si spaccasse»).

Dalì: esibizionista, istrionico, egocentrico, paranoico e suo padre, quando era ancora solo un ragazzo, diceva che non era in grado di fare nulla, non sapeva nemmeno attraversare la strada da solo.

Anne Sexton: poetessa, si suicida.

Sylvia Plath: poetessa, si suicida con la testa nel forno a gas a trent’anni, nel 1963, dopo vari ricoveri, terapia elettrica, psicofarmaci e violenze dal marito Ted Hughes, anch’egli poeta.

Mariella Mehr:  nata nel 1947, viene tolta ai genitori di etnia nomade Jenisch e sottoposta a trattamento psichiatrico secondo il programma eugenetico del dopoguerra.

E la carrellata finale.
Depressi: Monet, De Chirico.
Alcolismo e/o abuso di sostanze: Modigliani, Hemingway, Kerouac, King.
Masochismo: Rousseau.
Tendenze pedofile: Schiele.
Schizofrenia: Rilke, Blake, Yeats, Rumi.

In definitiva, cerchiamo di rispondere alla domanda da cui eravamo partiti: è l'arte a causare i disturbi psichiatrici, oppure sono quei disturbi a generare una propensione per la genialità e l'arte?
Che la risposta ce l'abbia data lo stesso Aristotele, millenni fa, il quale, rispondendo al suo stesso quesito, affermava che "i melanconici sono persone eccezionali, non per malattia ma per natura"? Non è la malattia che li fa grandi, dunque, ma è la loro grandezza che è tale da superare la malattia?

Secondo me, la verità, come sempre, sta nel mezzo. Non si possono negare gli influssi positivi di alcune psicosi per l'arte: la mania, che porta a una accelerazione nei processi mentali; la schizofrenia, che genera connessioni e immagini originali; perfino le droghe e l'alcol, a causa della perdita di freni inibitori, potrebbero aver favorito l'inizio di alcune opere che, altrimenti, nessuno "sano di mente" avrebbe mai pensato di creare, data la loro folle complessità.
Ma poi ripenso a Emily Dickinson, che in vita ha venduto solo sette poesie, e al mio amato Vincent Van Gogh, che, nonostante fosse partito con una grande stima nelle proprie capacità ("Non posso cambiare il fatto che i miei quadri non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore dei colori usati nel quadro."), in vita riuscì a piazzare solo un dipinto, e mi dico che è vero anche il contrario. Che è la professione creativa, così poco riconosciuta dalla società, che ci espone più facilmente all'insuccesso e alle difficoltà economiche, portandoci, di conseguenza, a sviluppare depressione e altri disturbi. Forse, le cose cambierebbero, se la società modificasse la sua opinione nei confronti degli artisti e delle malattie mentali. Forse possiamo cambiare le cose noi stessi, partendo da una semplice pacca sulla spalla di chi finge di stare bene per non farci stare in pensiero. Perché, per quanto sia sbagliato ricoprire di una patina romantica i disturbi mentali e atti estremi come l'autolesionismo e il suicidio, ricordate che è solo parlandone, riconoscendoli e sollevando il peso del senso di colpa dalla vittima che ella potrà trovare una cura, il sorriso e, in ultimo, la pace.


- Alice

25 commenti:

  1. Rispondere è complesso e forse lo farò a rate. Di primo acchito mi verrebbe da sostituire "o" con "e": non questo motivo o quello, ma questo e quello e quell'altro ancora. Portata come sono all'autoanalisi, il primo pensiero è stato quello di chiedermi se la discriminante è come mi vedono gli altri o (e già mi sto contraddicendo) come mi vedo io. Mi spiego: io penso che l'uomo riconosca la sua dignità nell'uso del cervello ed è questa particolare percezione che gli provoca disagio al pensiero che il proprio cervello non funzioni bene; ovviamente questo disagio è sia agito sia subito, poiché chi non ne soffre in prima persona non lo accetta negli altri. Per stare al tuo esempio: io non prendo il prozac sia perché gli altri mi vedrebbero diverso sia perché diverso mi vedo io e diverso, in questo caso, significa non all'altezza di essere umano. Molto chiaramente, poi, comportamenti violenti generano paura e quindi provocano la reazione, spesso altrettanto violenta, di bloccarli. Le stranezze provocano altrettante paure di tipo diverso, poiché evocano fantasmi più o meno inconsci presenti nella maggior parte delle persone; da qui la reazione di esorcizzarli con la derisione, con l'emarginazione o altro. Mi pare, insomma, che il problema di base, nell'approccio a questo tipo di sofferenza, stia nella difficoltà di considerare il cervello un organo come un altro. Probabilmente perché non lo è. Tuttavia queste considerazioni alquanto generiche non hanno toccato il quesito del rapporto malattia - arte - genialità anche scientifica.

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    1. La tua è una risposta che mi ha molto colpita, in particolare la parte sul cervello che non viene visto al pari degli altri organi. Hai proprio ragione: una medicina o malattia legata al cervello non ha nulla a che vedere con l'equivalente legato ad altri organi "normali". Idem il discorso che, se prendessi psicofarmaci, tu per prima non ti sentiresti all'altezza di essere umano. E' una cosa gravissima, pensa al carico di orrore che la società pone sulle spalle di chi soffre. Oltre alla sofferenza, l'insensatezza della sofferenza, e la colpa perché si soffre, e il non riconoscimento della sofferenza, e la vergogna se si prova a gestire o guarire o anche solo a parlare di quella sofferenza. Per me è abominevole.

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  2. Il fatto è che io sono parte di questa società e io per prima pongo questo carico, ma, se anche così non fosse, se fosse la parte non sofferente della società a porre questo carico e questo marchio, una volta che se ne è consapevoli, bisogna far di tutto per riaffermarsi come persone e, se l'arte è il mezzo di comunicazione, attraverso quello "costringere" gli altri ad approcciarsi a noi. Certo non basta, perché bisognerebbe avere una cerchia di rapporti positivi e valorizzanti. Tuttavia il dialogare attraverso la propria arte costringe gli altri a misurarsi con noi sul nostro terreno e lì l'essere strani diviene secondario, perché già non siamo più dei signori Nessuno. Resta piuttosto il problema se è meglio essere artisti, essere sofferenti e infelici o non geniali e felici, almeno alcuni se lo pongono e ho sentito uno dire che, potendo, non avrebbe curato Van Gogh perché non andasse perduta la sua arte. Questo per me è agghiacciante, oltre al fatto che è un ragionamento del cavolo (scusa l'espressione plebea): l'arte sarebbe proseguita su altri parametri. Inoltre c'è da dire che non tutti coloro che hanno disturbi psichiatrici o dell'umore sono artisti. Tra parentesi ho anche sentito dire a una psichiatra che si ritiene che l'evoluzione umana si è avuta "grazie" ai disturbi psichiatrici di chi non si adattava al proprio gruppo sociale, la qual cosa mi ha lasciata a dir poco perplessa, ma poi non ho approfondito la cosa. Chiedo scusa per il mio scrivere poco lineare, ma ho voluto rispondere, anche se sono un po' stanca.

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    1. Sicuramente l'arte, qualunque forma di arte, ha uno straordinario valore terapeutico. Pensa che in psicologia l'essere umano è ritenuto sano se ha tre caratteristiche: legge; ha relazioni sociali; ha un hobby manuale. Naturalmente l'arte io non la intendo come hobby, bensì come passione, come vocazione e chiamata; ma questa è la mia particolare visione.
      Rispondendo alla seconda parte del tuo intervento, che ho molto apprezzato, mi viene in mente Daisy de Il grande Gatsby quando, parlando della figlia, si augura che sarà "una bella oca giuliva", perché non vi è niente di meglio al mondo che essere belle e sciocche, o meglio, "inadatte all'introspezione", perché ponendosi poche domande si soffre meno.
      Nel caso di Van Gogh, sono d'accordo con te: secondo me egli non dipingeva a causa della psicosi, anzi, Vincent usava i colori per esprimere tutte le sue emozioni. Usava i colori come un vocabolario della pittura: le persone erano blu quando lui era triste, gialle quando era felice. E dipinse sia in tempo di felicità che in tempo di angoscia. Dipinse da pazzo e dipinse da giovane pieno di speranze. Però, avrebbe dipinto comunque Campo di grano con volo di corvi, per non parlare della Notte stellata, se non fosse stato allo stremo della disperazione? Forse no. Il mondo sarebbe lo stesso, senza quei quadri? Forse no. Forse sì. Non lo possiamo sapere. Personalmente, e ti parlo da profana, se qualcuno mi dicesse: guarda, questa è una pastiglia blu, se la prendi sarai felice ma perderai la tua arte; questa è rossa, se la scegli sarai ancora più devastata dal dolore ma produrrai una grande opera, non avrei dubbi. Sceglierei la seconda. La mia vita non è niente in confronto allo scorrere imponente del tempo della Terra. Solo un soffio, un battito di ciglia. Posso amare qualcuno finché sono viva, e lasciarmi amare; posso aiutare delle persone, abbracciarle; posso far sorridere e far sentire meno solo qualcuno, ma tutto si risolve in quel battito di ciglio, o poco più. Ma un'opera, se ben fatta e distribuita, può salvare delle vite. Può far sentire meno sole persone non solo accanto a me, che mi hanno conosciuta in vita, ma gente sparsa chissà dove nel mondo; persone che, leggendo quelle righe, potrebbero dire: oddio, ma allora non sono solo io a sentirmi così, lei mi capiva, mi avrebbe capito. Non sono solo, non sono solo. Sicuramente sbaglierò, ma è la mia opinione. Aggiungo solo che vi sono disturbi, come ad esempio quello dissociativo d'identità, che vengono davvero considerati una forma evolutiva rispetto alla mente "canonica". In fondo, il dolore è il miglior maestro che la razza umana abbia mai avuto fin dalla preistoria. Allora, quando un uomo antico aveva mal di pancia dopo aver mangiato una certa bacca, non la mangiava più. Se vedeva un altro dilaniato da una tigre siberiana, lui scappava, non restava lì a imitare il primo cercando di sconfiggerla. Come un bimbo piccolo, che non spegne di nuovo le candeline col dito una volta scoperto che il fuoco scotta. E' il dolore a farci evolvere. Naturalmente sono sempre dell'idea che sarebbe bene trovare un equilibrio tra l'arte e la sofferenza, in modo che la prima annulli e curi la seconda (nostra e altrui), ma questo, in generale, è il mio pensiero. - Alice

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    2. Grazie per la risposta accurata. Sono d'accordo, per le motivazioni da te esposte, con la scelta della pastiglia rossa, se si tratta di me; la stessa scelta mi verrebbe in salita se dovessi scegliere per qualcun altro. Grazie anche per il chiarimento sul disturbo dissociativo. Complimenti per questo articolo, profondo nell'analisi e accurato nella ricerca. Credo che lo rileggerò entrando un po' più nel merito degli interrogativi che poni.

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  3. Post bellissimo e complesso, il vostro. Personalmente, leggendo la lunga lista di personaggi che menzionate, mi viene da pensare che, prima di essere in qualche modo delle personalità fragili e disturbate, siano in primis degli esseri umani con una sensibilità sterminata. Il che, nella società contemporanea ancor più che nelle epoche in cui ciascuno di loro è vissuto, finisce per essere un peso.
    L'emotività, la sensibilità, la capacità di percepire con maggiore intensità determinate emozioni finiscono per distruggerci, se non le lasciamo in qualche modo sfogare, come il gas intrappolato in un vulcano.
    Gli artisti, secondo me, sono questo. Anime fragili, con un'empatia ingombrante, più sensibili della media della popolazione, che attraverso la loro arte hanno cercato di incanalare queste emozioni, lasciandole uscire da sè per evitare di esserne divorati e distrutti.
    Che poi, nella società contemporanea, ancor più di un tempo, certe "debolezze" vengano vissute come un tabù è qualcosa di tremendo.
    Proprio nell'era social, in cui siamo tutti sempre e costantemente connessi con tutti, tendiamo paradossalmente a mostrare al mondo ancor di più una facciata finta, sommergendo all'interno i nostri demoni interiori, finendo per venirne divorati. Più siamo connessi con gli altri, più ci disinteressiamo di loro, aspettandoci che essi stessi, come la luna, ci mostrino sempre e solo una faccia, lasciando in ombra i loro malesseri e il loro lato oscuro.
    Più ci colleghiamo col mondo, meno lo facciamo con gli esseri umani. La società ormai si aspetta questo: che tutti noi fingiamo di stare bene, sempre e comunque.
    La vostra riflessione apre un mondo; mi piacerebbe dedicare un post a questo argomento, se avrò un po' di tempo... grazie per aver proposto questo spunto di riflessione!

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    1. Ciao Letizia, grazie per il commento. La tua riflessione mi ha davvero colpita, in particolar modo la parte in cui hai connesso l'empatia degli artisti con il mondo social moderno. Purtroppo hai proprio ragione: a nessuno - o a pochi - importa davvero come stiamo, cosa proviamo quando siamo soli alle nostre scrivanie, o se dietro gli schermi, mentre digitiamo una faccina sorridente, sulle nostre guance ci siano o meno delle lacrime. Sarebbe bellissimo se volessi scrivere un post su questo argomento :-) fra l'altro, ieri sera sono andata a sbirciare il tuo blog e l'ho trovato davvero interessante, perciò hai una nuova fan :D grazie a te per aver commentato, ciao!

      - Alice

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  4. probabilmente, il senso sta tutto qui; ciò che è arte per me non lo è per te, e viceversa. Alcuni dicono che in quadro ognuno può vederci ciò che vuole, creandosi il mondo e dandogli la propria impronta personale. Ciò, credo che equivalga a fraintendere...è vero che ogni opera ha un valore, ma ancora devo trovare qualcuno che mi convinca che joice è uno scrittore o pollock qualcosa di più di un malato di mente. malato di mente non significa merda, né artista. E pollock, ma anche modigliani o de chirico (per prenderne due che citi) non avevano nulla da dire: come detto, per altri costoro sono grandi artisti.In psicologia, per essere considerato sano di mente devi possedere tre cose, dici; leggere; rapporti sociali; hobby manuali. Non so voi, ma io due di queste cose non le possiedo. Sono pazzo? :)Personalmente - e lo sottolineo - trovo più interessante chiedermi/si; cosa può essere considerato pazzo, e cosa no?
    Per spiegare; "vivo nel terrore di essere capito". O. Wilde.
    Che intendeva dire? Tralasciando chi ci vede solo l'ennesima eccentricità di un dandy, e chi, invece, ci trova chissà quali significati metafisici, Wilde sottolineò, "semplicemente", l'ipocrisia dei suoi contemporanei, non per la prima né per l'ultima volta: un comportamento sociale diverso - non effettivamente peggiore - come il suo creava un muro intorno a sé. Il motivo per cui al tempo Wilde ebbe successo come eccentrico, fu il mistero; nulla, al mondo come nell'Universo, attira un essere umano come e quanto il mistero.In misure minori o maggiori, il mistero ci circonda, e in ogni cosa lo possiamo vedere: dai pensieri sulla morte a quelli sulla crescita, al terrore che subisce chi è innamorato e non sa come comportarsi - come se esistesse un manuale della vita -, come gli scienziati che prima vedono modificarsi millenni di teorie astruse in certi piccoli cocci di certezza, che però porta ad altre domande (quindi mistero) e ad altre scoperte, che minano sempre più salute.Ci si dimentica che l'arte è fatta dalle persone, e che, come queste, è "perfettamente inutile".
    Tornando , per finire, sulla follia:credo che troppe sono le varianti che, nel corso dei decenni di vita di una persona, possono essere alla base di mutamenti radicali, della personalità.Più la mente è libera, più è la mente di un neonato che, infatti, non ha problemi psicologici: quando le prime esperienze si affacciano, condizionano,sempre.geopoliticamente, socialmente, e scientificamente - esempio: il tempo potrebbe non esistere, e la teoria della relatività modificata ulteriormente) anche il comportamento da adottare nei confronti di minoranze e ""diversi"" come depressi e schizofrenici dovrà cambiare (e sta cambiando infatti). Il dialogo più che i vari antidepressivi conta sicuramente di più, ma in questo dialogo non dovrebbe esserci tanto la volontà da parte di chi si approccia ai temi dei disturbi di volerli comprendere, ma solo di ascoltare e, appunto, dialogare; un "sano di mente" non comprenderà mai un "pazzo", e viceversa, ovviamente."ne ferisce davvero più la parola che la spada, oggi". Sempre Wilde. Che significa? La critica, qui, è sociale, ed è rivolta, contrariamente a quanto può sembrare, ai feriti, e non ai feritori: non tanto un invito quasi cristiano a non rispondere, quanto un "perché mai queste parole dispregiative,dovrebbero farmi male? Ancora oggi,esistono persone che non conoscono il peso delle parole. Ma ancora oggi, c'è anche chi si offende per un "tua mamma è una troia" o un "madonna inculata".Né le offese né le bestemmie sono civili, ma una società in cui la stupidità venga punita con l'indifferenza anziché con l'indignazione non sarebbe male. E da qui, poi, partire a non offendere la comunità lgbt+, persone con problemi psicofisici e depressi, e non banalizzare le situazioni di disagio interiore altrui, sarebbe molto più semplice.

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    1. Scusate se non si capisce benissimo, ho impiegato 5 minuti a scrivere il commento e 12 a cancellare le parti in più meno interessanti perché "il codice immesso non può avere più di 4096 caratteri specificato" :((

      Comunque bellissimo post, e bei commenti :)

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    2. Ciao! Grazie per il commento :)
      Tranquillo, il post si capisce ed è molto interessante, oltre che condivisibile. Una cosa che ti chiedo gentilmente, per i post a venire, è di evitare l'uso di bestemmie e limitare quello del turpiloquio, anche se so che hai utilizzato entrambi solo per esprimere concetti e non certo per offendere. Grazie per la comprensione :)

      Detto questo, l'unica frase con cui mi sento di rispondere è questa, una delle mie citazioni preferite:

      "Per me i matti erano loro, per loro il matto ero io; ma loro - maledetti - erano molti di più."


      - Alice

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    3. Ciao ancora! Ho utilizzato le parole più significative in quel contesto. Bestemmiare non è civile, ma è un concetto che esiste più nella testa di chi si offende che una cosa realmente dannosa. La sensibilità altrui è sempre difficile da comprendere, ma nessun essere umano al mondo non può fare lo sforzo di comprendere quanto sia ridicolo offendersi per degli insulti ricevuti, anche indirettamente. Chi reagisce a una provocazione, non dimostra tanta più maturità di chi provoca. Può comprendersi la cosa, naturalmente, ma è più dannoso per sé stesdi che altro. Se si insulta, si è poco civili, ma se ci si indigna perché ciò accade...:|

      Giuro che non ho capito in quale senso intendi turpiloquio: personalmente, dò un'accezione piuttosto negativa di questa parola, e il fatto che qualcuno possa vedere in un commento come il mio di sopra qualcosa di riconducibile al turpiloquio mi preoccupa. Non credo di aver compreso, quindi, cos'è che dovrei limitare (se ti riferisci all'ingarbugliamento dei pensieri o alla decisione di certe uscite (tipo quelle su pollock etc.)posso dirti che è il mio modo di parlare e ragionare, ovviamente il tutto semplificato per motivi di spazio. Altrimenti, non ho davvero capito cosa intendi.

      Grazie comunque per la risposta, Alice

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    4. Comunque, insieme a Schiele, tra coloro che hanno avuto tendenze pedofile puoi metterci anche Nabokov e A. de Saint-Exupéry...

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    5. Ciao. Mi riferisco, semplicemente, a questa parte del tuo commento originale:

      "Ma ancora oggi, c'è anche chi si offende per un "tua mamma è una troia" o un "madonna inculata"."

      Come detto, so che non hai voluto offendere ed erano solo modi di dire ed esempi, ma ti chiedo comunque gentilmente di evitare questo tipo di linguaggio in futuro, sul nostro blog.
      Si tratta solo di rispetto della netiquette, nessuna offesa.


      - Alice

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    6. Non avevo capito, perché tu dividi le due cose (mi chiedi di "evitare l'uso delle bestemmie e limitare quello del turpiloquio") e credevo intendessi anche altro :)

      Non faccio uso delle bestemmie né del turpiloquio (sempre nel mio primo commento specifico "né le offese né le bestemmie sono civili"), non sono abituato a offendere né, tantomeno, a bestemmiare. L'ho specificato apposta, nel primo commento proprio perché si capisse (tu lo hai capito ma non per tutti è così :) ).

      Un libro che lessi da ragazzo e che mi rimase impresso perché parlava del mondo dei naziskin affrontando il discorso anche dal punto di vista psicologico, e non solo sociale-culturale, e nel quale il protagonista affronta il mondo della depressione è Skin, di Lois Ruby, Edizioni El (collana Ex-libris). Ciao!

      P.s.:Per quanto riguarda la tua frase del primo commento,confesso di non ricordare oppure di non sapere proprio di chi è... ma non si può conoscere tutto :)

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    7. Hai detto una grande verità HPL, non si può conoscere tutto. Noi per prime non abbiamo la presunzione di sapere qualsiasi cosa. ;)
      Comunque mi stupisce che tu dica “un libro che lessi da ragazzo”. Accidenti, a 20 anni SEI un ragazzo, anche se devo ammettere che il tuo bagaglio culturale ti dà sicuramente qualche anno in più.

      - Francesca

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    8. Mi sono segnata il libro che hai citato, mi sembra davvero interessante.
      La frase la trascrissi durante uno speciale televisivo di diversi anni fa sul manicomio di Bedlam. Era la frase che uno dei pazienti aveva scritto nella sua cella.

      - Alice

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    9. A Francesca : a 20 anni si è anche troppo vecchi, ormai :))) no, be, per ragazzo intendo proprio ragazzino, avrò avuto 12 anni...

      Non essere presuntuosi è una grande virtù, spesso accompagna l'umiltà. Ciò, però, per come la vedo io, non significa, eventualmente, non essere anche duri, nel criticare oggettivamente (o il più oggettivamente possibile), per esempio, un libro.

      Molto banalmente, ho tempo da perdere, essendo attualmente, ehm, disoccupato... ma la lettura, non so se anche per voi è stato così, è stata un po' un rifugio. Non basterebbero cento vite per leggere le storie che sono state narrate nel tempo, obbligatoriamente ognuno/a di noi fa delle scelte, e decide di approfondire, e preferire,certe storie, certi autori, temi e generi. Non si può conoscere tutto, ma non.è una scusa per non provarci!!


      Ad Alice : grazie per la frase, l'ho anche cercata ma non mi usciva nulla... bella, quel pazzo aveva capito tante cose.
      Il libro lo ricordo per il fatto che mi colpì, l'ho riletto solo una volta e mi è piaciuto lo stesso, non come, invece, altre letture fatte a distanza di tempo (cioè, mi piaceva, debbo confessarlo, le ultime lettere di jacopo ortis...imbarazzo), quindi sì, pur non essendo fantascienza potrebbe interessarti. :)


      Rileggendo il post, una parte, quella dove parli della difficoltà di vivere scrivendo (ossia di essere considerato scrittore/scrittrice), e fai l'esempio della rimpatriata tra amici che si raccontano il proprio lavoro, mi ha ricordato una canzone di Max Pezzali, Come Deve Andare.
      All'inizio, un pezzo recita (vado a memoria...) "il mio peugeot, col freddo arrancava, tossiva un po', partiva e si fermava / mi superò, uno col fifty nero, vidi che rideva son sicuro, dall'alto del suo fifty sia di me che del peugeot / così tornai, a casa un po' umiliato, il ghiaccio che dal chiodo era entrato in profondità, nel mio orgoglio ferito,allora che, al volo ho realizzato il rischio di passare la mia vita sopra un peugeot che arranca in salita, mentre uno con il fifty ti sorpassa e rideva".
      "Amici che non avrei più rivisto, sbattuti là, scaraventati in pasto a una realtà, che qualche anno dopo avrebbe già riscosso il suo tributo (...), e c'erano quelli già sistemati, in società, temuti e rispettati, guardavano con schifo malcelato persone con cui avevano vissuto, non era più il tempo di parlare, gente che era così inferiore". C'entra poco con il tema, delicato, del post, ma forse neanche così tanto. :)


      Ciao a tutte!

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    10. Più che la lettura, nel mio caso è stata la scrittura il vero rifugio. Scrivere mi ha permesso di creare il mio angolo speciale, un posto che nessuno aveva il diritto di contaminare. Non a caso, inizialmente si è trattato solo di questo: un rifugio. Il voler scrivere a tutti i costi una storia invendibile, piena di falle e banalità, ma di cui avevo bisogno per evadere dalla mia quotidianità, come una sbronza! Poi le cose sono cambiate e, da semplice rifugio, è diventato qualcosa di molto, molto più importante. Concordo quando dici che non basterebbe una vita per leggere tutte le storie che sono state narrate nel tempo e che ognuno di noi si trova costretto, per forza di cose, a compiere delle scelte. Io spesso scelgo male e resto delusa dal mio acquisto, tant’è che se dovessi essere critica e screditare i titoli che non mi sono piaciuti, probabilmente diventerei la lettrice più odiata d’Italia. Comunque mi hai incuriosita. Vorrei chiederti, gentilmente, di dare una letta al post “E voi, come scegliete un libro?”. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Naturalmente, sono ben accetti consigli di lettura ;)
      Buon fine settimana, HPL. È sempre un piacere!

      - Francesca

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    11. Molto bello il testo della canzone, lo cercherò in versione integrale. Non è nemmeno fuori tema, perché esprime esattamente quel pugnale di freddo che ti colpisce allo stomaco in certe situazioni. O anche un po' più su, dalle parti del cuore.

      Anche per me il rifugio è stato più che altro la scrittura, ma devo dire che la lettura è andata di pari passo. Leggevo a tre anni e mezzo e a sei ho scritto il mio primo tema: protagonista, un gatto abbandonato dalla sua famiglia sotto Natale. Ricordo che, mezzo assiderato, si riparava in una vecchia casa diroccata, "anch'essa abbandonata al suo destino", in cui attendeva in eterno il ritorno dei suoi padroni. Allegria, eh? Comunque, a parte questo scivolone nel gorgo dei ricordi, per me le parole scritte sono sempre state un rifugio, in un senso o nell'altro. E' naturale fare delle scelte, ma è giusto cercare di essere il più onnivori possibile.

      Buon fine settimana a te, HPL.

      - Alice

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  5. Ciao a tutte!

    A Francesca : allora, scrivere, come già avete fatto notare, è terapeutico. Normale, dunque, che tramite la scrittura ci si "sbolliscono" gli spiriti, più o meno tormentati (oddio, tu parli di sbronza, spero di no, perché quando ti ubriachi ti addormenti ;) ) e la si percepisce come un rifugio: c'è chi lo fa con gli sport, chi con gli hobby etc. Io lo faccio con la lettura, o disegnando alle volte, ma la scrittura, inteso come atto pratico dello scrivere, è la cosa che odio di più al mondo. Non mi piace scrivere, sia perché non lo fare sia perché mi sembra di sprecare fogli (deformazione mentale dovuta, molto probabilmente, al fatto che disegno...), e oltretutto i pensieri, quando vengono e li vuoi mettere giù, vanno troppo veloci e per starci dietro devi scrivere in fretta e da cani...amo i libri, non scrivere (un po' come amo la buona cucina ma mettermi lì a smanettare con pentole e ingredienti mi sembra un ottimo modo di sprecare il proprio tempo...).
    Questo per dire solo che capisco cosa intendi, tutti/e abbiamo avuto dei rifugi, credo, anche senza essere soli (è questo il caso di molti, sottoscritto incluso).

    Per il rimando al post: l'avevo già letto ma non avevo commentato, non avevo granché da dire in merito. Ma ti rispondo sotto quel post, ok?


    Per Alice : "guardavano con schifo malcelato persone con cui avevano vissuto". Questa è la parte fondamentale, che ho rivisto nel post. Anche per esperienze personali (come ognuno di noi ha), quando si guarda dall'alto verso il basso, non ci si accorge che, spesso, si rimane solo più soli.

    Tema simpatico, ma stai parlando con uno che si presenta con HPL... :) il pessimismo è la via. Scherzi a parte, avrai avuto dei motivi, che forse nemmeno ricordi, per aver scritto ciò che hai scritto (magari avevi assistito a una scena simile). Io a 10 anni scrissi un tema dove intervistavo nientemeno che la Morte...presi pure 8 ahahah...scivoloni nei ricordi everywhere ;)

    Certo che bisogna essere onnivori... o, come nel mio caso, vegetariani non osservanti...

    (Un'ultima cosa: non volevo parlarne perché c'entra poco con lo spirito del post, ma quella che vorrebbe Van Gogh tagliarsi l'orecchio è una bufala, fu lo stesso gauguin a farlo)

    Buona giornata a voi.

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    1. A dire il vero, non avevo assistito a episodi simili, ma magari mi aveva colpita qualcosa in qualche cartone, chi se lo ricorda :)

      Il discorso dell'orecchio di Van Gogh in effetti mi incuriosisce. Anche io tempo addietro lessi della teoria su Gaugin, e mi pare ci sia stato pubblicato anche un libro sopra, ma poi, più tardi, trovai ulteriori articoli di altri studiosi che asserivano il contrario. Anche ora, cercando online per pura curiosità, ho trovato teorie contrastanti e nessuna certezza, ma la versione dell'automutilazione sembrerebbe la più acclarata. Alcuni dicono che Gaugin avesse mutilato l'orecchio all'amico durante un litigio furibondo, altri che fu lui stesso a mutilarselo e che il vero motivo non fu nemmeno la litigata con Gaugin, bensì una lettera ricevuta dal fratello che lo avvisava della sua visita nella casa di Arles, una prospettiva che innervosì Van Gogh al punto da renderlo cieco di furore. Non so quale delle due sia la storia giusta, tu hai trovato qualche prova? E' un argomento che mi sta molto a cuore.

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    2. No, nessuna prova, mi spiace :(, anch'io mi baso su alcuni studi, e, per quanto mi riesce, provo a trovare la versione più imparziale. In questo caso, l'argomento Van Gogh non mi sta particolarmente a cuore e pertanto non ti so dare fonti particolari e attendibili. Posso solo dire che sono tante le cose di cui in realtà sappiamo pochissimo, quasi grazie a testimonianze, che non è detto siano effettivamente veritiere, ma d'altro canto non ci sono certezze in merito nemmeno in senso inverso. :)

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    3. Proprio vero! Purtroppo alcune verità si sono perse nel tempo e non c'è nulla che possiamo farci. Per questo spesso ho un approccio agnostico alle cose: ce ne sono alcune che, semplicemente, ci sfuggiranno per sempre. Proprio perché siamo una specie con dei limiti, anche se ha scoperto e scoprirà ancora cose grandiose.
      Però il tuo intervento mi ha dato l'idea per un prossimo post, quindi ti ringrazio! :)
      Buon sabato.


      - Alice

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    4. Felice di ciò, allora, e non vedo l'ora di leggere il post ;)
      Altrettanto!

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Tu.
Sì, proprio tu.
Ti trovi in un luogo fra lo spazio e il tempo, dove l'educazione e il rispetto sono la regola internazionale. Se ciò che stai scrivendo è offensivo, sei pregata/o di contare fino a dieci e ricordarti che nell'eternità siderale la stupidità non ha luogo.