domenica 27 marzo 2016

Due chiacchiere su Kent Haruf e la sua "Benedizione"

Buongiorno e Buona Pasqua!
Vado subito al sodo: vi dico subito che oggi voglio dire una cosa molto brutta.
Lo so.
Molti mi diranno: ma veramente? Stai scherzando? A me è piaciuto da morire! E poi è un successo internazionale! E questo! E quell'altro!
Sì, va bene, ma tanto io lo dico lo stesso.


"Benedizione" di Kent Haruf mi sta scocciando.

Sì. Avete sentito bene.
Bellissimo lo stile, d'accordo, che ricorda molto McCarthy. Tante principali, tono dimesso, una forza sotterranea che dipinge tanti episodi slegati ma in qualche modo connessi tra loro dalle deboli vene e arterie del tempo. Ok.
Per le prime cento pagine.
Centocinquanta.

Poi, anche basta. Perché io lo so che i manuali di scrittura creativa andrebbero lasciati sugli scaffali perché tarpano le ali e la mente, lo capisco, ma qualche minima regola voglio ancora pensare che ci sia: una Domanda Drammaturgica Principale (cioè la domanda che porta avanti la trama: per Romeo e Giulietta, ad esempio, "riusciranno 'sti due gonzi a stare insieme?", tanto per capirci), un climax o almeno qualche dubbio o segreto che porti avanti la trama, qualcosa che dia la spinta al lettore di voltare pagina per vedere come finisce la storia. Ma quale storia, in questo libro? Ci sono sei o sette personaggi, tutti fondamentalmente appiattiti dallo stesso stile e tono dimesso di scrittura, che quasi non si distinguono tra loro. Almeno, io non li distinguo. Posso distinguere meglio Dad, la moglie, Frank e Lorraine, che sono i componenti della famiglia protagonista di alcuni episodi del libro, ma solo perché in effetti un minimo di caratterizzazione diversa ce l'hanno. Frank, inutile dirlo, è il mio personaggio preferito, l'unico che abbia dei segreti o che comunque non sia appiattito come tutti gli altri. Per lui il tono dimesso di Haruf è perfetto, perché una vittima di bullismo può solo sussurrare.
Non c'è una vera trama, o un susseguirsi di eventi: c'è un tizio che sta morendo di cancro che si ricorda qualche episodio sconnesso della sua vita; due tizie, madre e figlia, che vanno a comprare dei vestiti con una bambina orfana che vive con la nonna; c'è un prete che guarda nelle finestre della gente; e qualcun altro che nemmeno mi ricordo cosa faccia. Boh. Come andrà a finire la storia? Se almeno ce ne fosse una, me lo chiederei.

La verità è che l'unica cosa che mi fa andare avanti nel libro, per ora, è sapere se ci sarà qualche altra pagina su Frank, vedere 'sto tizio malato morire e basta. Anzi, un'altra cosa c'è: lo stile di scrittura, che è veramente buono e che con orgoglio ammetto essere molto simile a quello che utilizzo io nel mio secondo romanzo ancora in cantiere. Ma non posso pensare di continuare a leggere un libro solo per lo stile di scrittura: sarebbe come continuare a mangiare un piatto insapore ma presentato benissimo. Per l'amor del cielo, finirò questo libro e senz'altro darò anche un'opportunità al secondo e anche al terzo della trilogia, ma c'è una grossa differenza fra Haruf e McCarthy: il secondo ha una storia, ha un uomo e un bambino, suo figlio, in un mondo postatomico, ha delle bande di cannibali che li braccano - ha, soprattutto, la capacità di utilizzare quello stile di scrittura così dimesso non come livella, ma come sorgente di una forza straordinaria per far emergere come schiuma sulle onde le emozioni e i legami tra i personaggi e l'ambiente che li circonda. "La strada" è un libro amaro, di lacrime e rabbiosa speranza; "Benedizione" è... non lo so. Non si capisce. O magari non lo capisco io.
Bene, che parta il lancio delle pietre. Vi attendo.

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