mercoledì 9 dicembre 2015

Per il ciclo recensioni librose: "Teo" di Lorenza Gentile e "La Strada di Winnie Puh" di A. Milne

Buonasera! Da qualche giorno sono costretta a casa con una brutta tracheobronchite e, se è proprio vero che tutto porta sia conseguenze negative che positive, questa situazione mi ha permesso di rallentare un po' i ritmi di vita. Quanto riuscivo a leggere, nelle ultime settimane? Due, tre pagine al giorno? Dopo tante ore di lavoro e mille altri impegni, col teporino del letto che iniziava a farmi assopire, non riuscivo a fare di più. Da lunedì, invece, fra un colpo di tosse e una caramella al miele, mi sono concessa un po' più di tempo per gustarmi ciò che leggevo.
Due sono stati i pasticcini di carta che ho assaporato: "Teo" di Lorenza Gentile, a cui ho già accennato qui e qui, e "La strada di Winnie Puh" di A. Milne, di cui avevo iniziato a raccontarvi qui.
Parto dal primo, che ha come protagonista un bambino - Teo, appunto - che vive in una famiglia problematica, dove i genitori, sempre più lontani l'uno dall'altra, litigano continuamente. L'unica persona con la quale può scambiare qualche parola è la tata, Susi, ma parlare con lei spesso lo confonde: appartiene a un'altra cultura e il poco italiano che conosce lo usa per esprimere concetti strani, come quello di reincarnazione, difficili da capire per un bambino. Ciò che più desidera Teo al mondo è vedere la sua famiglia unita: rimetterne insieme i pezzi diventa la sua personale battaglia, e a chi chiedere consiglio se non a Napoleone? Uno che, secondo la copertina del suo libro di storia, di battaglia non ne ha mai persa nemmeno una? Ben presto, Teo scopre che parlare con Napoleone non è però così facile: purtroppo il suo eroe è morto e, perciò, quello che Teo si convince di dover fare è proprio morire, così da poterlo incontrare e salvare la sua famiglia. Deve solo decidere come, quando e cosa portare con sé per il suo ultimo viaggio.
Questo, in sintesi, il punto di partenza del libro, che ho finito in un paio di giorni. Perché in così poco? Beh, il prologo è accattivante e il libro si fa leggere, non c'è che dire. E' interessante sottolineare come la Gentile sia riuscita a calarsi profondamente nel punto di vista di un bambino, sia per quanto riguarda lo stile di scrittura, scorrevole e semplice, sia per l'assenza pressoché totale di melodrammi e autocommiserazioni: Teo ha solo otto anni ed è naturale che i problemi che deve affrontare, piccoli o grandi che siano, vengano raccontati da lui con leggerezza e candore, laddove un adulto (o anche un adolescente) si perderebbe in drammi interiori, introspezioni e mille tentennamenti. Un adulto ha un passato e quel passato ne appesantisce il cuore: un bambino ha solo il presente e sa sempre chi è e cosa vuole ottenere.
E ve lo consiglio, davvero. Non è un libro che rimarrà indelebile nella storia della letteratura, probabilmente, ma nella sua semplicità trova il modo per fare breccia nel cuore di chi legge, parlando direttamente al bambino che siamo stati e che, se solo smettessimo di soffocarlo, potremmo ancora essere.
L'unico elemento che ho trovato un po' tirato via è il finale, per quanto reso discretamente: duecento pagine di sottile ma sempre presente suspense, e poi... non so. Bellino, ci mancherebbe, ma una mezza pagina in più io ce l'avrei vista bene. Vero è che Teo è solo un bambino e in quanto tale portato a prendere con serena subitaneità le sue decisioni, però io la vedo così.

E poi è arrivato "La strada di Winnie Puh" di A. Milne, che avevo già iniziato a leggere qualche settimana fa e che, essendo sostanzialmente una raccolta di racconti, intercalavo qua e là ad altre letture più pesanti. Bello. Triste. Bello. Difficile uscire fuori da quest'alternanza di valutazioni, ma tant'è: "La strada di Winnie Puh", pubblicato nel 1928, è il secondo e ultimo volume della saga dedicata al celebre orsetto (ne esiste anche un terzo capitolo, non molto ben recensito, purtroppo, scritto da David Benedictus e pubblicato nel 2009), iniziata con "Winnie Puh" nel 1926. Tutti noi conosciamo l'orsetto Puh, Porcelletto, Isaia, Uffa, Coniglio, Kan, Guro, Tigro e il loro padroncino e compagno di giochi, Christopher Robin. Milne, autore del romanzo ma anche padre del bambino, immagina le avventure degli orsacchiotti di suo figlio e le narra una dopo l'altra, con una dolcezza, una semplicità e una delicatezza commoventi. Sì, perché se all'inizio Christopher è ancora un bimbo, piano piano inizia a crescere, ad andare a scuola, a scrivere sempre meglio i messaggi che lascia agli abitanti del Bosco dei Cento Acri e, lentamente, a giocare sempre meno con loro; questo elemento non traspare dai vari racconti, se non verso la fine, più o meno nelle ultime pagine, quando vi ritroverete a piangere come viti tagliate e a gridare dondolando con le mani premute sulle orecchie, sentendovi morire dentro.
D'accordo, forse non tutti reagiranno così; non quelli a cui piace "il brodino di sapore acqueo", per dirla alla Giuseppe Pontremoli, ma se c'è una cosa che vorrei far capire agli scettici è che questi libri non hanno nulla a che vedere con il marketing legato a Winnie The Pooh, come lo ha ribattezzato la Disney. Perché... diavolo, è difficile spiegarlo. Ma se vi è piaciuto Toy Story, e se avete pianto, allora non vedo perché non dovreste dare una chance anche a Winnie. E' un "Orso di Pochissimo Cervello", questo è vero, ma come viene spesso dimostrato nella saga, saprà insegnarvi molto più di quanto voi possiate immaginare. Perché chi ha troppo cervello, come Coniglio (diventato poi Tappo nell'edizione Disney), finisce per "non capire mai niente". Perché, come ha scritto Stephen King, la mente, se lasciata a se stessa, finisce per divorarsi.
E se in "Teo" c'è l'esempio lampante di quanto è più semplice e chiara la vita, per quanto dolorosa, vista con l'innocente ingenuità di un bambino, nella saga di Milne scopriamo che c'è qualcosa di ancora più puro di un bambino: lo sguardo di bottone di un orsacchiotto di pezza, due occhi che non invecchieranno mai e mai smetteranno di stupirsi per le piccole meraviglie della vita. Perché ogni bambino diventerà un adulto, prima o poi, e lascerà indietro le cose dell'infanzia; probabilmente costruirà piramidi di ambizioni davanti a sé e mai nella vita perdonerà quel bambino che, di tanto in tanto, sente ancora agitarsi dentro di sé. Ma un orsacchiotto, specialmente se di Pochissimo Cervello, queste cose le sa e le accetta. Il suo adulto potrà buttarlo, rinchiuderlo in uno scatolone, perfino darlo in beneficenza, ma nulla di tutto questo potrà mai cancellare il ricordo dei pomeriggi trascorsi insieme a ridere, bevendo latte e miele sotto l'ombra fresca e pungente degli aceri.

Dopo queste due botte di vita, penso che inizierò un libro indispensabile per la documentazione per il mio nuovo romanzo: "Sulla strada" di J. Kerouac, al quale mi approccio con grandi aspettative. Da un lato, so già che probabilmente non apprezzerò le parti relative alla droga (per non parlare di come verranno trattati gli argomenti "donne" e "sesso"), ma dall'altro so che la strada è lì, che mi aspetta, così come quella macchina con la portiera aperta e il motore rombante. Stasera salirò a bordo e, per un po', starò in viaggio. Kerouac non è mai stato sulla Route 66 (ha scritto "Sulla strada" in tre settimane, strafatto di droga e ubriaco per quasi tutto il tempo), ma spero che sentirò lo stesso l'odore crudo della terra, quello bruciato degli hamburger sulla piastra e, alla fine, il tap-ta-tap leggero delle mie lacrime.

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