giovedì 26 maggio 2016

La mia vita torinese: giorno 3, in cui schivo un serial killer


Giorno 3
In cui schivo un serial killer


COSE BELLE: la colazione letteraria, la mostra su Matisse, due bambini che giocavano senza poter parlare fra loro, i nerd

COSE INQUIETANTI: il serial killer, la canzone che canticchiava il serial killer, i nerd




Bene.
Sono le 7.26 di mattina, io sono immersa nel tepore delle lenzuola, ed è così che mi sento: bene. Odo il vociare del mercato affiorare dalla strada, il profumo di qualcosa di buono, forse del pane, che cuoce da qualche parte.
Sarebbe un risveglio perfetto, sicuramente migliore di quello che ho avuto ieri, se solo, tutto d'un tratto, non sentissi una voce strana in mezzo a quelle del mercato. Sembra che canti, ed è vicina.
Mi alzo, avvolgendomi tipo piadina nel lenzuolo, e mi avvicino alla finestra. Ah, per inciso: non sognatevi di girare in mutande qui, perché l'inclinazione particolare della strada sottostante fa sì che i passanti siano praticamente vostri compagni di stanza. L'ho imparato a mie spese: la prima sera stavo per godermi la liberazione di slacciarmi il reggiseno quando un tizio mi ha fischiato e salutata con la mano. Un tizio. In strada. Che mi sorrideva. Spettacolo.
Ma comunque, tornando alla voce.
Sono appiccicata al vetro, con le mani a coppa ai lati degli occhi per vedere meglio, ma niente. Molti teli stesi sull'acciottolato, mucchi di borse finte, orologi, ombrelli, bonghi; un quantità di signori afroamericani, un bel po' di mediorientali e una moltitudine di cinesi, ma nessuno che stia cantando.
Mistero.
Torno a letto e la voce ricomincia. Più vicina, ora. Di colpo, capisco che non viene dall'esterno.
L'estraneo è già qui.
E vuole uccidermi.



Oddio, non è che ne sia proprio sicura, ma se senti un tipo che canta canzoni inquietanti alle sette del mattino in un corridoio di un hotel, beh, tanto a posto quel qualcuno non deve essere. La canzone aumenta d'intensità, come nella migliore tradizione thriller, da Criminal Minds a La tempesta del secolo, passando per Nightmare, ed io comincio a impensierirmi. Mi sono chiusa a chiave? Sì. E se il tipo avesse una sua chiave? Se fosse l'ospite francese di ieri, quella esagitata per i croissant a colazione, perché magari non ne ha trovati e sospettasse, vista la mia pinguedine, che glieli ho mangiati tutti io?
Dilemma.

Alla fine, decido di rischiare. Mi vesto, tenendo sempre d'occhio la porta (e la finestra, nel caso il mio simpatico amico della prima sera ritorni a salutarmi), mi trucco e mi preparo alla battaglia: ho un pennello per ombretto in una mano (non ho avuto il tempo per affilarlo) e un panino avariato nell'altra. Mi ero scordata di averlo, in realtà: avrei dovuto mangiarlo il primo giorno, ma ora sono felice di essermene dimenticata.
Mi piazzo di fronte alla porta e abbasso la maniglia.
Sono pronta.



Il corridoio è deserto.
C'è solo la voce, che proviene da dietro la porta dirimpetto alla mia. Sopra c'è scritto PRIVATO. La bocca mi si prosciuga mentre richiudo la porta della mia camera, cercando di fare meno rumore possibile. La canzone sembra napoletana e il tipo la canta con uno stonato trasporto che non mi sento di scoraggiare del tutto. E' uno dell'hotel? Un ospite che ha sbagliato porta? Non lo so e non voglio saperlo.
M'infilo la chiave in tasca e me la filo alla velocità della luce.



Mi materializzo di sotto tipo teletrasporto, dove, per fortuna, mi attende la prima cosa bella della giornata. C'è un'unica tavolata in sala buffet, e la ragazza dell'hotel (istantaneamente la elimino dalla lista dei sospettati) mi propone di mangiare insieme agli altri ospiti, che mi sorridono speranzosi. Ora, io sono un animale sociale più o meno quanto la gente per strada mi scambierebbe per Naomi Campbell, ma visto che ho appena scampato la morte (per ora, mi ricorda una vocina) decido di farmi coraggio e socializzare.
E faccio bene, perché intorno al tavolo mi raggiungono, piano piano, diverse persone interessanti: scrittori, artisti, perfino un insegnante della Scuola Holden di Baricco. E scopro, fra il divertimento, l'onore e il panico, che tutti gli altri sono studenti dei corsi della Holden.
Cerco di dividere l'attenzione fra il loro talento e il mio tentativo di capire se uno di loro abbia la voce del serial killer, ma alla fine sono costretta ad ammettere che non sospetto di nessuno di loro: sono tutte persone fantastiche, brillanti e molto simpatiche, esponenti di un mondo di cui spero tanto, un giorno, di meritare di far parte anch'io.

Lascio i bagagli in giacenza, salutando per l'ultima volta Henry, Mike e Georgia (ma solo nel mio cuore; col cavolo che salgo di nuovo lassù, con un serial killer a piede libero) per poi dirigermi verso la mostra su Matisse, ospitata dal Palazzo Chiablese.
Pare quasi che sappia di cosa sto parlando, nevvero? Eppure mi perdo qualcosa come tre volte per percorrere i 15 minuti scarsi che mi separano, secondo il GPS, dalla mia destinazione.
Comunque, alla fine riesco ad arrivare e, anche se non è permesso fare foto nemmeno senza flash (ma poi, io non me ne intendo e sicuramente ci saranno ottimi motivi, ma famo a capisse: nun è che se ce faccio la foto je copio l'idea a Matisse, eh), m'inoltro (che fa? Cincischia???) per le sale del museo. Che è bello, porca vacca se è bello!



Non ci sono solo quadri di Matisse, ma i suoi spiccano e la selezione proposta è davvero impressionante. Molti sono gli stili - dal fauvismo fino ad arrivare a una semplificazione brutale delle forme e dei colori, con una predilezione anche per il circo e i suoi protagonisti - che il pittore e scultore ha attraversato lungo tutta la sua produzione artistica. 
Bella anche la piccola stanza-cinema, in cui viene mandato in onda un video di una decina di minuti in cui Matisse mostra come dipingeva: pochi, semplici tratti, con accostamenti di colori complementari... ma anche con tanta riflessione e, sì, anche tentennamenti. Guardando al rallentatore la sua mano, si nota come il pennello ondeggi molto sul foglio prima di calare e tracciare con precisione quella singola linea che andrà a comporre l'opera finita.
Guardate che meraviglia questo dipinto, con quale candore risalta l'abito della ragazza sullo sfondo rosso:


All'uscita, vado a pranzo a La maison de Marie, un ristorantino in una corte interna di Via Garibaldi. Anche qui, prima di trovarlo mi perdo tipo due volte, però alla fine lo individuo. Patate al forno da paura, così come il vitello tonnato. Sembrano buoni anche i dolci, ma preferisco stare a guardare due bambini, uno italiano e uno francese, che prima stanno con le loro famiglie ai rispettivi tavoli, poi si guardano con desiderio e infine, abbandonata ogni remora, si corrono incontro e si mettono a giocare, senza nemmeno parlare la stessa lingua. Ma a cosa sarebbe servito, in fondo? Ridono allo stesso modo, e tanto basta.

L'ultima avventura che mi aspetta è il Museo di Arte Orientale. In realtà, qui ci sono già stata due anni fa, ma stavolta c'è una mostra temporanea che mi solletica: quella sui guerrieri e i samurai nell'epoca moderna, dal nome "Bushi".



Chiedo un biglietto, faccio una figuraccia con l'assistente quando non trovo il portafoglio e poi, passata la paura, mi dirigo verso questo spettacolo:




E via, che altro c'è da dire?
Beh, che subito dopo mi aspetta questo:



E questo:



E lì comincio a sentirmi su di giri, anche perché ero convinta mancassero cinque mesi (CINQUE! SOLO CINQUE, VI RENDETE CONTO?!) al Lucca Comics, invece dentro trovo degli artbook originali da poter sfogliare (dopo aver indossato dei guantini bianchi che, per qualche motivo, connetto al serial killer che ormai dovrei aver seminato) e anche la cosa più straordinaria dell'universo:










Sì.
Citazioni che scorrono sullo schermo come le introduzioni dei film di Star Wars.
Non penso di aver mai visto una cosa più nerd e mastodonticamente figa in tutta la mia vita. Devono pensarla così anche gli altri visitatori della mostra, che da qui in avanti chiameremo, per semplicità, i nerd. I nerd sono decine, tutti intorno a me, e contemplano le action figure sotto le teche di vetro con un misto di stupore, rimpianto e bramosia febbrile. Copiosi rivoli di bava colano dalle loro bocche di fronte a queste meraviglie:




















Ma la cosa più bella sono i loro figli, che un po' mi fanno pena. Perché? Beh, vi faccio un esempio di uno dei dialoghi cui ho assistito:

Bambino inspiegabilmente non nerd: "Mamma, sono stanco, perché siamo ancora qui?"
Madre nerd: "Taci."
Bambino: "Ma ho fame! E mi scappa la pipì! E poi mi annoio..."
Madre nerd: "Ma piantala. Non capisci niente."
Bambino, sul punto di mettersi a piangere: "M-Mamma, che cos'hai? Perché fai così?"
Madre nerd: "BAMBINO, TU NON CAPISCI NIENTE."

Povera donna. Cioè, lo so che il 99% della gente avrebbe appoggiato il bambino, ma io la capisco, quella madre nerd. Uno dei motivi è il seguente:



Cioè, capite che c'è una statua a dimensione naturale di Yoda, e che la sua spada laser si illumina al passaggio delle persone? Voglio dire, bambino, taci. Impara e taci.

Ma, purtroppo, anche questo paradiso finisce, e così devo necessariamente proseguire la mia visita lungo il museo vero e proprio, le cui collezioni, a dire il vero, conosco già. Rimango comunque affascinata dalle armature, un paravento giapponese dipinto con rami di ciliegio su fondo oro e da questo:



No, non è avorio.
Sono ossa umane. Di bambini inspiegabilmente non nerd? Non lo sapremo mai.
Comunque, poco dopo esco dal museo e, purtroppo, so già che i miei minuti a Torino sono contati. Dopo alcuni saluti e aver recuperato il trolley, mi avvio verso la stazione e salgo sul treno. Mi metto comoda (per quanto possa stare comoda una persona con un trolley grosso quanto un giocatore neozelandese di rugby) e mi preparo alle quattro ore di viaggio che mi riporteranno a casa, dove il mio gatto, i miei genitori ed i miei amici (sì, sono consapevole di aver anteposto il gatto a loro) mi aspettano.
Il macchinista sale a bordo e il panorama fuori dal finestrino inizia a muoversi. Anche morire sarà così? Chiudere a chiave una stanza, preparare i bagagli e lasciare un posto che hai amato profondamente, per tornare in un luogo che sai essere la tua vera casa?
Non lo so. So solo che ora la campagna scorre veloce e che porterò sempre nel cuore questo weekend, con le sue cose belle e quelle inquietanti, gli incontri, le emozioni, gli sguardi di Van Gogh, la pioggia improvvisa, gli alieni fluorescenti sulla parete, gli Urania, i mici del Miagola Caffè e, sì, anche un po' il serial killer, che in fondo deve sentirsi depresso quanto me, ora che sa di avermi mancata. Tornerò, non preoccuparti, mio inquietante amico.
Tornerò.


Fine del viaggio



2 commenti:

  1. Io comunque non mi sorprendo affatto che tu sia arrivata seconda al concorso di Neri Pozza - era quello, giusto? Mi piace da morire come scrivi. Alterni un'ironia divertentissima piena di paragoni assurdi a riflessioni meravigliose, come quella sul come potesse essere la morte. Questo terzo giorno è stato meno incentrato sui libri, ma fighissimo lo stesso. Star Wars a palate. E un figlio non nerd non si augura proprio, eh!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non hai idea di quanto mi abbia colpita il tuo messaggio. Non so davvero come ringraziarti... e spero tanto di poter pubblicare, un giorno, perché senza scrittura io non respiro nemmeno.
      Hai ragione, l'ultimo giorno non è stato un granché libroso, ma è andata così ;-) da domani riparto con i post più incentrati sul tema dei libri! Grazie ancora,davvero... significa proprio tanto per me. Grazie!

      Elimina

Tu.
Sì, proprio tu.
Ti trovi in un luogo fra lo spazio e il tempo, dove l'educazione e il rispetto sono la regola internazionale. Se ciò che stai scrivendo è offensivo, sei pregata/o di contare fino a dieci e ricordarti che nell'eternità siderale la stupidità non ha luogo.